Nonostante i continui richiami degli esperti che si occupano di monitorare e studiare il fenomeno, per ogni evento di femminicidio coniugale[1] esiste ancora una folta schiera di giornalisti che utilizza il termine raptus per indicare il comportamento violento dell’uomo che porta all’omicidio della partner. Questa parola, di poche lettere, se usata in maniera impropria (come nella quasi totalità dei casi di femminicidio) finisce con lo stravolgere completamente il significato di quanto avvenuto. Ed ora vi spiego perché. Partiamo dall’etimologia. Raptus è un termine latino, che letteralmente significa “rapimento”. Rapimento di chi, o di cosa, in questo caso? Della piena consapevolezza e volontà di agire. In altre parole, il termine si riferisce al sequestro (e momentanea scomparsa) delle funzioni della critica, della volontà e della piena coscienza da parte di un sistema emozionale (in particolare quello della rabbia) il quale, superando una determinata soglia di attivazione, si manifesta in tutta la sua esplosione, travolgendo le funzioni filtro della coscienza. La persona colta da un raptus agisce in preda a istinti (frequentemente violenti, aggressivi o autolesivi) sotto la momentanea incapacità di intendere e di volere. L’ incapacità di intendere e di volere equivale all’impossibilità di controllare i propri impulsi e la persona finisce col commettere ciò che a mente lucida non farebbe mai. In preda ad un raptus, la persona non è consapevole di quello che fa. Nell'ambito del diritto penale, della criminologia e della psichiatria forense la carenza di controllo degli impulsi può essere considerata condizione di momentanea incapacità di intendere e di volere e quindi attenuante per la commissione di reati[2]. Quando una persona colta da raptus “rientra in se” fatica a credere a quello che ha fatto. Entra in crisi con se stessa e manifesta senso di colpa, dolore, angoscia per quello che una parte di se ha commesso. Il raptus può essere indotto dall’assunzione di sostanze psicoattivanti (come amfetamine e cocaina) oppure può rappresentare un tratto stabile della personalità, ma in questo caso si parla di disturbi della personalità di tipo psicopatico o antisociale. Definito il concetto di raptus, andiamo ad analizzare brevemente alcuni famosi casi di cronaca italiana recente. Il caso di Elena Ceste Il 24 gennaio 2014, a Costigliole d’Asti, Elena (37 anni), madre di quattro figli, scompare di casa. Scattano subito gli allarmi e le forze dell’ordine si mobilitano per la ricerca della giovane donna. Il marito, M.B. è sconvolto. Si rivolge ai carabinieri dicendo “me l’hanno rapita”. Il 18 ottobre 2014, a nove mesi dalla scomparsa viene trovato un cadavere senza testa, in avanzato stato di decomposizione presso un canale di scolo, posizionato nelle campagne vicino alla casa della donna. L’esame del Dna conferma: si tratta del cadavere di Elena. Si aprono le indagini per omicidio ed occultamento di cadavere ed immediatamente i riflettori vengono indirizzati sul marito, già sospettato a causa di contraddizioni nel ricostruire la vicenda. Ad oggi, il perito informatico Giuseppe Dezzani, nominato dalla Procura per svolgere gli accertamenti relativi agli spostamenti dell’uomo, riferisce che tutto sembra stato congeniato ad opera d’arte, definendolo un “lavoro meticoloso”. Della loro relazione sappiamo che Elena era “Una donna sottomessa al marito, completamente succube. Sarebbe questo il risultato della perizia disposta dagli inquirenti sulla personalità di Elena Ceste, la donna scomparsa nei pressi di Asti a gennaio 2014 e ritrovata cadavere, a pochi passi da casa, nove mesi dopo. Per l'omicidio è indagato e attualmente in carcere il marito, Michele Buoninconti. I risultati della perizia, riportati da Giallo, parlano di un marito padrone che aveva sottomesso la moglie: “Elena Ceste ha sempre temuto di sbagliare, di esporsi a brutte figure, attenta alle apparenze, sempre accompagnata dal marito (…) La moglie doveva lavare, stirare, innaffiare, sfamare gli animali da cortile (…) L’assicurazione dell’auto della moglie veniva sospesa al cessare dell’anno scolastico (…) Le altre esigenze connesse al ruolo di madre, donna di casa, affaccendata domestica, non necessitavano della macchina. Il risparmio era lo stile di vita (…) Nessuna possibilità per la moglie di garantirsi e assicurarsi riservatezza (…) Le veniva persino vietato Facebook”[3]. Ed ancora, si legge “Ma per gli inquirenti tutto torna. Anche le ragioni del delitto. Nell’agosto scorso Michele si sarebbe tradito con i figli: «Ero riuscito a far diventare mamma una donna, 18 anni della mia vita per recuperarla, 18 anni per raddrizzare mamma. Il magistrato traduce: «Si era convinto che Elena Ceste fosse una moglie e una madre inadeguata a svolgere i propri compiti... una donna che si affacciava a incontri segreti, a scambi di messaggi, telefonate e amicizie via chat. Era diventata per lui ingestibile e pericolosa, dannosa e doveva essere eliminata». Nel suo delirio voleva raddrizzarla e l’ha spezzata.” Il caso di Eligia Ardita[4] Eligia è un’infermiera di 35 anni all’ottavo mese di gravidanza. Ha già scelto il nome per la sua bambina, si chiamerà Giulia. Eligia sembra essere morta in circostanze misteriosa la sera del 19 gennaio 2015. Dopo una cena in famiglia, in un’atmosfera apparentemente tranquilla, Eligia da un bacio al padre prima di tornare a casa. Poi l’improvvisa telefonata del marito che lanciava l’allarme: “Eligia si è sentita male, ha perso conoscenza”. La donna viene trovata sdraiata, col corpo perfettamente composto sul letto matrimoniale. Inizialmente si pensa ad un malore sopraggiunto durante il sonno, successivamente arrivano i risultati dell’autopsia che non lasciano dubbi: la donna ha forti contusioni alla testa non compatibili con corpi contundenti che avrebbero potuto ferirla incidentalmente ed è comunque deceduta per soffocamento meccanico. Il padre della donna racconta: “Mia figlia viveva malissimo il suo matrimonio. Era preoccupata: lei cercava di ricucire il rapporto, lui non perdeva occasione per maltrattarla e umiliarla. Per lui esistevano solo gli amici, i locali notturni e il gioco d’azzardo. Lasciava Eligia, incinta all’ottavo mese, da sola a casa per andare a divertirsi. Guai se lei lo contraddiceva: andava su tutte le furie”. Ed ancora ricorda: “Noi avevamo capito che era infelice. Solo dopo la sua morte abbiamo scoperto che lo aveva detto alle amiche. Mi vengono in mente quei lividi che notammo sul corpo qualche mese prima che venisse uccisa. Eligia non volle mai ammettere che le erano stati fatti dal marito, ma ce lo lasciò intendere. Era novembre, e lei era incinta già di sei mesi.” “Quell’uomo trattava la mia bambina come una bestia. Era disoccupato, per sua scelta, e si faceva mantenere da lei, che era la sua schiava”. La ricostruzione delle telefonate partite dal cellulare del marito hanno portato gli inquirenti ad indicarlo come presunto colpevole. E poi ancora: - A Brescia, il 1 settembre 2015 il 41enne Luigi Cuel non ce la fa ad accettare che la propria compagna Cezara Musteada voglia interrompere la loro relazione. Così prima la soffocata con delle fascette, poi l' accoltella. Una volta uccisa l'ex fidanzata, si è toglie la vita, impiccandosi a un albero. L’uomo ha lasciato una lettera per spiegare il suo gesto. - Lecce, 8 agosto 2015. Ha sparato colpi pistola contro la moglie dalla quale si stava separando; l'ha uccisa e poi ha rivolto l'arma contro se stesso. Sergio Pagano, 45 anni, è poi spirato all'ospedale, mentre la ex compagna Rita Paola Marzo, di 41 anni, è morta sul colpo. I due si erano dati appuntamento per parlare della separazione. Da qualche tempo la coppia, che aveva due figli di 15 e 11 anni, si era separata: lui viveva a casa dei genitori ed era disoccupato. Pagano deteneva regolarmente l'arma del delitto, una calibro 9, "per uso sportivo". L’elenco[5] continua con lo stesso clichè per la maggior parte delle vittime del 2015, del 2014, del 2013 e così via. Leggendo le loro storie è possibile osservare come la componente del raptus sia pressoché inesistente, mentre la premeditazione o il tentativo di depistaggio delle indagini compaiano spesso e volentieri. Premeditazione e tentativo di depistaggio indicano la presenza di una coscienza dell’azione ed invocare il raptus in questi casi significa deresponsabilizzare colui che ha commesso il crimine ed uccidere una seconda volta la vittima, che raramente troverà giustizia. Possiamo osservare come le storie di queste donne siano frequentemente caratterizzate da una violenza (fisica e psicologica) presente da anni, spesso non evidente, ma che emerge solo dopo l’omicidio e a seguito delle indagini. Come sostengo in maniera più approfondita in un altro testo [6] , l’uccisione della partner è solo la punta dell’iceberg, l’epilogo più tragico di relazioni in cui il maltrattante fallisce nelle sue altre Tentate Soluzioni: possesso dell’Altro, controllo dell’Altro, sottomissione dell’Altro. Non chiamatelo raptus. di Monica Bonsangue note [1] I femminicidi, ossia le uccisioni della donna in cui la componente dell’ ”essere donna” è direttamente collegata al fattore scatenante dell’omicidio, possono essere suddivisi in femminicidi commessi dal partner o ex partner (quindi da una persona ben conosciuta), oppure commessi da sconosciuti. In questo articolo farò riferimento al primo gruppo. [2] Ugo Fornari, Follia transitoria. Il problema dell'irresistibile impulso e del raptus omicida, Raffaello Cortina Editore, 2014 [3] http://www.ilmattino.it/PRIMOPIANO/CRONACA/elena-ceste-schiava-michele-buoninconti-foto/notizie/1316177.shtml [4] Informazioni tratte dal settimanale Giallo, anno III n 38 del 23 settembre 2015. [5] http://www.repubblica.it/argomenti/femminicidio [6] Monica Bonsangue, La violenza psicologica nella coppia, Invictus editore, 2015 Bibliografia - http://27esimaora.corriere.it/articolo/lo-psichiatra-il-raptus-non-esiste-e-vi-dico-perche-sono-malvagi/?refresh_ce-cp - Ugo Fornari, Follia transitoria. Il problema dell'irresistibile impulso e del raptus omicida, Raffaello Cortina Editore, 2014 - M. Bonsangue, La violenza psicologica nella coppia, Invictus editore - Giallo, anno III n. 38, 23 settembre 2015
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AutoreMonica Bonsangue
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